Fabio Geda, scrittore lettore


Lo scrittore Fabio Geda si racconta ai ragazzi della 1F a La Grande Fabbrica delle Parole.

Le interviste che i bambini e i ragazzi hanno fatto agli scrittori nel corso dei laboratori sono raccolte in Ma tu quanti libri scrivi in una settimana? (a cura di Francesca Frediani, Terre di mezzo Editore). Chi compra il libro aiuta a finanziare le attività gratuite de La Grande Fabbrica delle Parole; lo trovate in libreria, dai venditori di strada e online.

Come hai iniziato a scrivere?
Ho iniziato a scrivere perché sono sempre stato un grande amante delle storie. Non dei libri in particolare (non è che da ragazzo stavo tutto il giorno a leggere nella triste e grigia cameretta invece che giocare a pallone!); amo anche il teatro, la fotografia, le storie raccontate a voce. L’amore per queste ultime lo devo a mio nonno, che aveva combattuto la seconda guerra mondiale e mi raccontava di quando in Africa era prigioniero degli inglesi; una volta era riuscito a scappare dal campo di prigionia ma era caduto giù da una duna, si era rotto una gamba e così era stato nuovamente catturato. Un’altra volta, la nave che lo portava in Inghilterra era affondata e lui era rimasto per due giorni in mare, finché non lo avevano trovato di nuovo gli inglesi. Io passavo i pomeriggi accanto a lui, ad ascoltarlo. Il mio primo racconto pubblicato risale al tempo del liceo scientifico, quando avevo quindici anni e amavo molto uno scrittore di genere, Stephen King; il mio era un racconto splatter, alla It.  Perchè quando si comincia a scrivere, si fa esattamente quello che si fa con la musica, quando si impara a suonare: cerchi gli accordi e rifai le canzoni che ami. Io facevo le cover dei miei scrittori preferiti: leggevo Il Signore degli Anelli e cercavo di rifarlo; a vent’anni mi innamoravo della letteratura sudamericana, e riscrivevo Gabrièl Garcìa Marquez. È come andare a bottega dai grandi maestri della pittura; all’inizio il plagio è consentito, e anzi incoraggiato, ma alla fine devi trovare la tua strada. Nel 1998 mi sono laureato e ho iniziato a lavorare con ragazzi come voi, occupandomi del disagio minorile. L’ho fatto a Torino per dodici anni, in una comunità in cui ci occupavamo di loro. A un certo punto, circondato da queste storie, ho pensato di provare a raccontare una cosa solo mia, che arrivasse dalla vita di tutti i giorni. È successo che ho dato un passaggio a un ragazzino rumeno, che giocava a pallone con un ragazzo della mia comunità, e in un quarto d’ora mi ha raccontato un po’ di cose di sé: era arrivato clandestino con suo padre, nascosto in un furgone del riso, ma dopo un anno suo padre era stato rimpatriato senza aver detto di avere un figlio con sé, abbandonandolo di fatto sul territorio italiano. Prima di salutarlo, gli chiesi: “Ma cosa fai?”. “Studio”, mi rispose. “Se mio padre mi ha lasciato qua un motivo ci sarà, ed è la scuola; quindi io sto qua e studio, ma appena posso scappo e vado a cercarlo”. Arrivato a casa, quella sera, ho scritto la storia che è diventata il libro Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani. Ho iniziato così a pubblicare, mandandola a un po’ di editori in giro per l’Italia.

Hai degli aiutanti?
No, e non ho neanche mai scritto insieme a qualcun altro, ma forse lo farò. Con lo sceneggiatore di fumetti Tito Faraci, in particolare; con lui ho un progetto. La scrittura è una cosa molto intima e personale: la storia, gli snodi narrativi, i rapporti con i personaggi e le parole per costruire tutto quel mondo che prima non c’era. E ogni parola ha un significato solo per te, finché scrivi. Mi servirebbe una segretaria ogni tanto, in compenso, per la logistica di tutti gli appuntamenti! A parte questo, direi che scrivo totalmente da solo.

Fai anche da sceneggiatore?
Non l’ho mai fatto. Per la prima volta per i fumetti, a Torino sto sceneggiando una storia per i centocinquant’anni della costruzione della Mole di Alessandro Antonelli, per il quotidiano La Stampa. Sto preparando lo storyboard del fumetto: non puoi fare solo la storia, serve avere anche già le immagini. Per televisione e cinema non mi è ancora capitato, ma mi piacerebbe.

Il tuo libro preferito?
Io dico sempre “il prossimo”, che sarà più bello e scritto meglio del precedente. È un po’ ciò che mi spinge a scrivere. Sono molto affezionato a ciò che sto scrivendo, più che ciò che ho scritto. Però il mio secondo romanzo, L’esatta sequenza dei gesti, in cui parlo molto di educazione e pedagogia (che è stato il mio mestiere per un sacco di tempo) è forse il libro a cui sono più legato.

Le copertine dei libri chi li fa?
Un Art Director. Non le decido io, purtroppo; al massimo riesco a dare un giudizio o un consiglio. Non ho avuto ancora il coraggio di fare di più… ognuno deve fare ciò che sa fare: io scrivo e immagino ci sia qualcuno che sa fare bene le copertine. Un paio di volte, però, è successo che proprio la copertina scelta non mi piacesse e mi sono pentito di non avere detto la mia. D’ora in poi cercherò di farlo. Chi fa il mestiere, alla fine, non ha i miei stessi gusti e potrebbe mettere sul mio libro mio un’immagine che non mi rappresenta, o ha poco a che fare con la storia.

Quando fai libro stai tutto il giorno a scrivere o solo qualche ora?
Tutti i miei libri, a parte l’ultimo, sono nati in questo modo: io facevo un altro lavoro (perché da ogni libro venduto uno scrittore guadagna un euro, per cui non ci vive) e rubavo il tempo per scrivere a quello libero, svegliandomi un po’ prima la mattina o rinunciando a uscire con gli amici. Quest’ultimo libro, L’estate alla fine del secolo, è il primo che ho scritto facendo solo questo, ed è stato magnifico. Avevo tutto il giorno, che vuol dire però essere molto severi con se stessi: mi mettevo la sveglia alle otto, mettevo su il caffè, leggevo il giornale e per le nove ero davanti al computer; pausa pranzo di un’ora e poi avanti fino alle cinque. Anche se non scrivevo, stavo comunque attaccato al computer per riscrivere, cercare materiale eccetera. Scrivere spesso è ultima cosa che si fa.

Da che idea parti e a cosa ti ispiri?
La vera verità è che non lo so e il processo è molto misterioso. Neanche tu che la scrivi sai bene perché hai scelto una storia e non un’altra. Di solito, io prendo un pezzo di una storia vera e poi inizio a inventare. Ma poi, perché proprio quella? Ho sempre in mente dieci storie diverse (perché tutte le vite sono interessantissime e basta saper vedere le cose giuste), ma come scelgo non lo so, funziona come l’innamoramento, o come la pasta per la pizza. Ci metto il lievito, faccio dieci pallottole di pasta e poi succede che sei o sette, per qualche motivo, non lievitino e che invece due inizino a gonfiarsi e gonfiarsi. E allora io comincio a pensarci sempre, mentre faccio la doccia, quando leggo un articolo… quando tutto quello che vedo intorno mi parla della storia che ho in testa, è un segnale che quella storia devo scriverla. Il mio mestiere è stupendo, perché non so mai in quale mondo sarò immerso per i prossimi due anni.

Quanto ci metti a scrivere un libro?
Fisicamente a scriverlo io ci metto un anno. Una prima stesura la faccio in quattro o cinque mesi, poi lascio lì il libro, lo rileggo miliardo di volte, lo faccio leggere agli amici. Ma arrivo a scrivere che ho già una visione della storia e magari ci ho messo un anno per farla nascere in me, un anno in cui lentamente ho preso appunti e raccolto materiali. È un processo lungo, di un paio d’anni. È importante ciò che scegli di raccontare.

Ti capita mai di non riuscire a scrivere le frasi come vorresti e non trovare la parole?
Sì, ma basta stare lì. Il problema è quando non ti accorgi che stai usando le parole sbagliate. Ma se te ne rendi conto, poi le trovi e ci sono mille modi per farlo: la cosa più ovvia e banale è usare il dizionario dei sinonimi e dei contrari (o il tasto destro del mouse, su word), così trovi la sfumatura che volevi. Oppure, se non conosci bene un argomento, allora c’è internet; io scrivo sempre connesso alla rete e cerco suggestioni. Ad esempio, mentre scrivevo la prima scena di questo libro (L’estate alla fine del secolo), quando i personaggi sono su una barca da pesca in Sicilia, ho passato un’intera giornata online a visitare i siti dei pescatori. Ho scoperto chi racconta le proprie avventure in barca, ho scoperto blog di pescatori innumerevoli. Anche nel libro Nel mare ci sono i coccodrilli c’è una scena ambientata in mare, tra Turchia e Grecia. Ma quel libro è cosa altra e speciale, per cui non vale niente di quello che ho detto finora. È una storia vera.

Di cosa parla?
Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari. La storia inizia quando  Enaiatollah ha otto anni e vive in Afghanistan. È di etnia azara, in un paese dove dominano i pashtun; gli azara hanno la pelle gialla, gli occhi a mandorla e sono impiegati nei lavori più umili. Un giorno, un ricco commerciante ha obbligato il padre di Enaiatollahad andare in Iran con un camion per portare della merce; lo fa per molte volte, finché non viene assaltato dai banditi che uccidono il padre e rubano camion e merce. Il ricco signore, allora, va dalla madre di Enaiatollah per reclamarlo come risarcimento dei danni; lei, ovviamente, si rifiuta e comincia a nasconderlo nel paese in cui abitano. Ci riesce per due anni. Quando Enaiatollah ha dieci anni è ormai troppo grande per essere nascosto ancora, allora la madre lo porta in Pakistan e lo lascia in strada. Pensa che, così, potrà inventarsi una vita come bambino di strada, mentre se fosse rimasto nel paesino accanto a lei il signore ricco avrebbe finito per trovarlo e usarlo per cose poco belle. Enaiatollah inizia a vivere da solo e a viaggiare, fino ad arrivare in Italia. L’ho incontrato che aveva diciassette anni, a Torino. La sua storia mi è piaciuta così tanto; anche per il modo, lieve e pieno di speranza, in cui la raccontava. Abbiamo lavorato insieme al libro. Ho deciso di scrivere la sua storia nel momento stesso in cui l’ho conosciuto: io presentavo il mio primo romanzo, lui raccontava la sua storia. Io gli dissi che valeva la pena scriverla, la sua storia, nel modo in cui la raccontava lui; mi rispose che non era capace di farlo ma avrei potuto farlo io: lui raccontava, io scrivevo. Ci ho messo due anni per avere il coraggio di farlo. Scrivere una storia tutta tua, inventata, ti dà meno responsabilità; devi essere onesto solo con te stesso e i personaggi. Sarei stato in grado di annullarmi? Avevo paura di invadere il libro con il mio punto di vista e i miei giudizi, mentre volevo scomparire per dare voce a lui.

Questo libro parte da un ascolto…
L’ascolto per me, che lavoro in questo modo, è importantissimo. Anche il personaggio del nonno, nel libro …, nasce da un altro incontro che mi è capitato. Un giorno ho incontrato un vecchio signore ebreo, a Torino, che aveva trascorso l’infanzia in clandestinità e aveva una storia molto intensa da raccontare. È diventato il modo in cui lavoro: incontro gente, faccio domande, che anche se fa paura è la cosa più bella. Bisogna imparare a fare qualunque domanda si abbia in testa (lasciando la libertà di non rispondere, in caso!).

Hai scritto solo libri nati da storie di altre perone o anche immaginarie?
A parte Nel mare ci sono i coccodrilli, una storia totalmente vera, tutti gli altri libri sono un insieme di storie vere e storie che mi invento. È come giocare a tennis con la rete e le linee di fondo campo, mentre non avere una storia reale di riferimento sarebbe come giocare senza limiti: potrei fare tutto, ma mi diverto di più ad essere creativo dentro i limiti che mi sono dato. Cerco una storia vera per ancorarmi e poi, da lì, comincio a chiedermi “e se fosse capitato, e se…”. Mi invento altre cose. Così si inventano le storie.

Te da piccolo cosa volevi fare?
Alla vostra età, il contadino. Poi ho capito che era un po’ faticoso, ed era meglio l’astrofisico. Per anni ho letto libri sul cosmo e le stelle. Alla fine del liceo (io sono sempre stato molto curioso e mi interessa tutto, cosa che è una grande dote per uno scrittore ma è complicato perché non sai cosa scegliere) ho scelto di frequentare una facoltà appena nata, che era tutto e nulla: Scienze della  comunicazione. Dopo un po’, però, ho iniziato a occuparmi di disagio minorile e ho scoperto che mi piaceva un sacco. Nel ’98 c’era stata una grande migrazione dall’Albania e a Torino ho lavorato come volontario con un gruppo di ragazzi albanesi. È diventato il mio lavoro, finché non ho trasformato la passione per la scrittura in un lavoro. In ogni caso, ho sempre cercato di fare ciò che amavo fare.

Un consiglio sullo scrivere?
Vi dico una cosa ovvia: per scrivere bisogna leggere. In Italia c’è un sacco di gente che scrive e poca che legge; se,chi scrive, si comprasse almeno un libro al mese triplicheremmo il mercato editoriale. Finché non incontriamo i libri che ci fanno innamorare, non sappiamo cosa amiamo leggere e cosa amiamo scrivere; è come mangiare sempre la pasta e non sapere che esistono anche la pizza e la bistecca. In realtà non si scrive, ma si riscrive. A scuola, per me era sempre e solo “subito in bella”, perché la brutta era noiosa e faticosa e la bella la cosa migliore che potessi fare. Ma il bello è nella magia della riscrittura costante. È come dare il bianco a una parete con un sacco di macchie di umidità. Bisogna dare tante mani di bianco e passare e ripassare sulle macchie, finché non viene una bella parete liscia e bianca.