Intervistato dai ragazzi della 2D della scuola media di via Fara, Gianni Biondillo racconta la sua passione per le storie, soprattutto quelle che, se non scritte, andrebbero dimenticate.
Perché scrivi?
È una domanda difficile, ci sono varie risposte. Ogni scrittore ti può dare una risposta differente. Chi scrive per essere pubblicato non è uno scrittore, tutti se lo augurano ma non è questa la ragione. Chi scrive lo fa perché ha un demone dentro la pancia, è una cosa illogica scrivere, è molto più divertente giocare a pallone, andare in bicicletta o al cinema. Scrivere è come andare a scuola, ma c’è un demone dentro di te che ti dice: “Racconta questa storia”. Pensa che gli antichi greci dicevano proprio questo: l’artista è posseduto da un Dio, non ha nessuna colpa, è solo un tramite. Il Dio gli dava l’ispirazione, l’urgenza di voler dire a tutti i costi qualcosa.
Ci sono scrittori che stanno tutto il tempo a dire dei fatti loro, e le storie di alcuni di questi, che sono bravissimi, sono veramente interessanti.
Altri scrittori, che sono quelli che io amo di più, vogliono raccontare le storie che andrebbero dimenticate, non quelle dei vincitori, che già stanno nei libri, ma di quelli che stanno ‘nella truppa’. Anche le cose più piccole: la nascita di un bambino, i turbamenti di un amore. Io sento che uno scrittore è chi lotta contro la morte, per raccontare cose che se no andrebbero dimenticate.
Allora cerco di raccontare storie non di chi arriva primo, ma ultimo o terzultimo. Non di chi vive in situazioni favorevoli, ma magari è figlio di immigrati o vive in quartieri difficili.
Come scrittore cerco di dare un pezzettino di eternità a una storia, che entri negli occhi del lettore.
Ti affatica scrivere?
Sempre. Ogni volta ricominci da capo. Un amico mi ha detto: “La scrittura non è fatica, è sofferenza”. Io ho delle origini popolari, vengo da un quartiere difficile che è Quarto Oggiaro, di cui parlo anche in alcuni miei libri. In casa non c’era nessun libro. Ma uno scrittore che non legge non è uno scrittore, chi scrive deve rubare continuamente dagli altri: uno scrittore non è che un ladro. C’è un mondo di persone che ha scritto delle cose incredibili: io, l’ultimo di tutta una fila, come posso permettermi di inventare da capo qualcosa? C’è una metafora inventata molto tempo fa: “Siamo nani sulle spalle dei giganti”. Letta in senso negativo ci dice che siamo qui grazie alla grande eredità del passato e non possiamo fare nulla, letta in senso positivo ci fa capire che noi siamo sulle spalle, quindi il nostro sguardo arriva un po’ più lontano di quello degli antichi.
Scrivere è più noioso di quanto uno immagini: non ti puoi distrarre, è maniacale, ti concentri lì tutta la giornata. C’è un punto di sofferenza, anche fisica, il demone che c’è dentro di te vuole uscire e questa cosa qui è difficile. Per questo c’è il blocco dello scrittore, lo scrittore cerca di rimandare il momento di scrivere. Io mi invento un sacco di scuse e perdo un sacco di tempo. Ore e ore di sofferenza!
Gabriel Garcia Màrquez, un premio Nobel di qualche anno fa, raccontò una volta che a scrivere Cent’anni di solitudine, il suo capolavoro, ci ha messo 15-17 mesi, non tanto, ma a pensare l’inizio ci ha messo 30 anni. Lo capisco! È la cosa più difficile dare inizio a qualcosa che non c’è.
Poi quando sono dentro la scrittura c’è una lotta tra me e la pagina.
Una volta ho scritto la storia di 4 ragazze che suonano in un gruppo rock, dovevo ragionare come una ragazza ed essere credibile. Anzi dovevo ragionare come quattro ragazze, con psicologie differenti. Quindi ho passato un lungo periodo ad osservare le ragazze sul tram e per le strade, rubando, scippando atteggiamenti e modi di essere.
Scrivere è difficile come entrare in un tunnel. Poi piano piano cominci ad abituarti a questo tunnel, lo arredi e cominci a starci bene. Ma poi vedi la luce, sta per finire il lavoro, e allora ti dispiace finirlo. Il mondo fuori ti fa di nuovo paura. Ma a quel punto il libro devi lasciarlo, non è più tuo appartiene al lettore. È come un figlio che ormai è cresciuto fa la sua vita. Torna allora un pensiero orribile: non riuscirò a scrivere più niente, questo è tutto quello che volevo dire. Ti senti come una tabula rasa. E ogni volta si ricomincia da capo.
Io sono architetto, ho lavorato per anni in uno studio. Poi, quando pubblicai nel 2004 il mio primo romanzo, incontrai l’architetto presso il quale avevo lavotrato. E subito mi chiese se non lavoravo più: è un’illusione comune che pubblichi un libro e poi sei ricco. Tutti gli scrittori hanno un altro lavoro, perché non campano di quello che scrivono. Se scrivi sapendo che non ci guadagnerai nulla sei proprio uno scrittore, se lo fai per i soldi fai altro. Ci sono scrittori, pochi, pochissimi, che campano della loro scrittura e sfondano il muro di silenzio e non-lettori fatto dagli italiani.
Agli italiani non piace leggere libri. Una volta ho letto che un manager francese che legge mediamente una 50 di libri l’anno, quasi uno a settimana. Un manager spagnolo ne legge la metà, 26. il manager italiano? Ne legge 7, se togliete il libro tecnico praticamente non legge nulla…Se questa è la nostra eccellenza figuriamoci tutto il resto.
Non è noioso leggere il libri, è noioso scriverli! Un amico scrittore mi ha detto: “Pensa che fortunati i lettori, hanno tutto il tempo per leggere. A noi tocca scriverli i libri”.
Per far leggere i libri ai ragazzi bisognerebbe proibirli, il sogno della mia vita è vedere agli angoli delle strade degli spacciatori di libri, rendere la droga legalizzata, così non se la compra più nessuno, e vietare i libri. Sembra una provocazione ma in realtà, se un libro è bello deve fare qualcosa di veramente eversivo, prendere e buttarvi delle bombe nel cervello.
Non come fa Moccia. Deve intrigarvi farvi ridere piangere soffrire esaltarvi, se riesce è un grande libro. Poi bisognerà imparare a sceglierli, è come andare a funghi.
Di cosa scrivi? Quanto ci metti a scrivere un libro?
Si può scrivere tutto quello che vi pare, non ci sono cose che si possono scrivere o cose no. La scrittura non ha vincoli, puoi scrivere nella massima libertà espressiva: l’unico vincolo che hai con la scrittura è il linguaggio. I miei libri hanno avuto tempi differenti, quand’è che uno inizia a scrivere un libro? Quando prende in mano la penna o quando inizia a pensarci? A documentarsi? Il mio prossimo libro parla dell’Africa e ho dovuto viaggiare per descrivere luoghi e persone. Joseph Conrad diceva “Come posso spiegare a mia moglie che mentre sto guardando fuori dalla finestra sto lavorando?”. Anche in questo momento io sto lavorando con voi, certe facce, certi atteggiamenti vostri mi torneranno in mente se dovrò descrivere una classe. Uno scrittore lavora sempre. Se vogliamo parlare di tempi tecnici, se togliamo il periodo di gestazione, ti posso dire che l’ultimo ci avrò messo 7 mesi, 8 mesi. Ma ho iniziato a pensarlo 4 anni fa mettendo un mattoncino alla volta. Poi quando non ce la facevo più ho cominciato a scrivere.
Quando scrive un libro, deve saper molte parole per descrivere le emozioni?
Sì, è per quello che devi leggere leggere leggere. Nessuno nasce “imparato”, ma leggendo vai a scoprire nuovi termini e parole. Leggere un libro è fare un viaggio, è un percorso che occupa del tempo. Se non sei allenato non è che ti svegli e dici: “Scalo il Monte Bianco”, non ce la farai mai. Aspetta, prima ti devi allenare, fai una passeggiata, poi un po’ di trekking in pianura, poi inizi a scalare qualche collina e di volta in volta cresci e sei pronto per il Monte Bianco. Lo stesso per la lettura, non puoi partire da Alla ricerca del tempo perduto di Proust, che è bellissimo, ma devi partire da altre cose, panorami più semplici, linguaggi più accessibili. Hai tutta la vita per leggere. Bisogna essere impazienti, ma avere giudizio: “Festina tarde”, come dicono i latini.
Quello che vi chiede chi sta al potere è di rimbambirvi con Totti e Maria de Filippi, il modo migliore è non farvi leggere: è noioso, rimanete stupidi.
Un libro ti deve far faticare un pochino, ti devi conquistare il panorama.
Lei guarda molta TV?
Ultimamente sempre meno perché è sempre più noiosa, la fiction soprattutto. Quella americana è molto più interessante perché c’è più libertà di scrittura: ad esempio in Grey’s Anatomy, che mi piace molto.
In America c’è una fiction dove il protagonista è un poliziotto corrotto che alla prima puntata uccide un collega. In Italia questo sarebbe impossibile.
Sto più volentieri su Internet che è più interattivo, più stimolante. Su Internet devi continuamente interagire, salti di link in link, hai il mondo a disposizione continuamente: io ho un amico che sta a Chicago, ci parliamo e vediamo continuamente. Per me alla vostra età era fantascienza. La TV è tutta finta! Io conoscevo uno che di lavoro stampava i copioni del Grande Fratello, è tutto falso, una grande bugia, una frode. Ti faccio credere che sia tutto vero e invece è tutto falso.
Come trova il titolo per i suoi romanzi?
Molti dei titoli dei libri in libreria non sono pensati dagli scrittori: come fai a riassumere in un titolo un pensiero narrato in 300-400 pagine? A volte c’è bisogno di uno sguardo esterno. Altri hanno il dono di trovare i titoli, a volte inizio a scrivere un libro e ho già il titolo in testa. Alcuni sono molto didascalici, altri vengono per illuminazione. Il mio ultimo romanzo l’ho pensato con un titolo poi l’ho cambiato.