Ci sono posti e posti. I bambini sono uguali in qualsiasi posto: ti sorprendono, hanno un certo potere e lo sappiamo tutti. Ma questo posto e questi bambini sono magici: mi hanno insegnato la mia scrittura, in due ore di incontro. Se non ci credete, accettate la sfida: incontrateli. Marco Missiroli.
Lo scrittore Marco Missiroli, davanti ai ragazzi della 2A del Falcone Borsellino (pronti a intervistarlo), rompe il ghiaccio raccontando la bellssima storia della vittoria ai Mondiali di calcio dell’Uruguay.
I deboli possono vincere solo se hanno una grande difesa: il silenzio, oppure saper vedere le cose. Osservare e comprendere i difetti degli altri, non per approfittarne, ma per tamponare i propri. Così la fragilità può trasformarsi in forza.
L’Uruguay, in finale contro il Brasile, forte, prepotente, mette in campo uno schema segreto.
Il Brasile, spazientito, continuava ad attaccare, senza riuscire a fare goal. L’Uruguay, che era molto più debole, decise di andare nella tana, giocare in difesa, stare in silenzio, ascoltare e capire se stesso, stando sempre unito.
Alla fine del primo tempo erano zero a zero. Il pubblico di tutto il mondo, ammutolito.
All’inizio del secondo tempo, il Brasile segnò un goal, seguito poco dopo dal goal del pareggio dell’Uruguay. Sull’uno a uno, il Brasile poteva accontentarsi perché con le regole di quel tempo con il pareggio avrebbe vinto. A cinque minuti dalla fine il Brasile andò vicinissimo a segnare il goal vittoria, la palla andò al centro campo e un giocatore uruguayano fece goal. L’Uruguay vince. Campione del mondo, contro tutti e contro ogni speranza; il debole, il fragile, ha battuto il gigante, perché è riuscito a capire se stesso partendo dalle proprie diversità. Il Paese festeggiò per un anno.
Questo è l’esempio di quanto una storia possa essere potente, è la stessa forza che mi ha fatto scrivere il primo libro. Prima non avevo scritto niente (a scuola andavo niente di speciale e mia mamma, che faceva l’insegnante, non credeva per niente che sarei diventato uno scrittore).
Una storia è la cosa più potente che possiamo avere tra le mani. Ognuno di noi può essere tutto, e le storie aiutano a tiralo fuori.
Che libri ha scritto?
Ho scritto tre libri, il primo a 23 anni.
Uno.
Ero a Bologna, dove facevo l’università (frequentavo Scienze della comunicazione, la laurea delle veline e di chi non sa cosa fare!) e stavo andando a pagare una bolletta. Così è nata l’idea del mio primo romanzo, Senza coda, che parla di un bambino molto solo, che però ha un amico, il figlio del giardiniere di casa. Tutti i giovedì il padre gli mette una busta chiusa nella cartella, da portare a un uomo. Un giorno il bambino si incuriosisce, apre la busta e capisce che dentro è contenuto uno dei segreti più gravi che una persona può avere, e scopre chi è veramente suo padre. Se c’è una parola per riassumere questo libro, è: ribellione. Si intitola così perché il protagonista taglia le code alle lucertole, che quando le stacchi si muovono per un po’ da sole, e alla fine ricrescono. È un gesto molto cattivo ma, poiché le code ricrescono, c’è la possibilità che quel gesto venga cancellato dalla natura.
Quando ho pubblicato il libro, mi hanno chiesto se me l’aveva scritto qualcun altro, forse non credevano in me. Mi ha anche portato un premio.
Due.
Il secondo libro, Il buio addosso, non è una storia molto felice, ha una copertina nera, che inquieta terribilmente e forse annoia, però il libro non è affatto noioso.
Parla di una bambina zoppa che vive in un villaggio in cui i neonati con qualche deformità vengono uccisi; lei, però, viene salvata dal sindaco, che è suo padre. La gente del paese la segrega nella torre dell’orologio, insieme al matto. Nonostante tutto il buio che le mettono addosso, lei ha anche una luce e riesce a ribellarsi, fregando tutti. Dalla sua torre lei muove il tempo e, così, inizia a sballare i ritmi di tutto il paesino. L’idea mi è venuta perché quando ero piccolo ero magrissimo, talmente magro che al mare (io sono di Rimini) non mi sentivo a mio agio; allora cercavo di andare in spiaggia molto presto, per fare la camminata senza essere guardato. Mi è rimasto addosso, questo buio. È il libro più triste che ho scritto, però piace molto, soprattutto alle donne. È dedicato a un mio vecchio amore, infatti.
Tre.
Al terzo romanzo, non ne potevo più dei colori scuri, l’ho chiamato Bianco. La storia assomiglia molto a quella del film di Clint Eastwood, Gran Torino. Parla di una cosa crudele, ma ve la racconto lo stesso perché è importante. Il Ku Klux Clan. Il Ku Klux Clan ammazzava i neri, i diversi. Vi dico come li ammazzava? Prendevano una persona, le legavano polsi e caviglie ai cavalli, frustravano poi i cavalli e così gli arti si strappavano. Poi li appendevano. C’è un odio doppio che ci fa capire come l’essere umano può diventare una bestia. Il protagonista è un vecchio, che ha fatto parte per moltissimo tempo di questo gruppo di razzisti, e a un certo punto non ne può più. Cosa gli è successo? È l’amore che gli ha dato la forza per ribellarsi. Il bianco è lo specchio di tutti i colori.
Questo libro mi ha portato la consapevolezza di essere uno scrittore.
E.
L’ultimo libro, che uscirà, Il senso dell’elefante, parla di tutta la devozione e tutta la cura che si può dare ai bambini che non arrivano. Parla di tradimento e di eutanasia. Il titolo è un richiamo alle mamme elefante, che proteggono tutti i cuccioli del branco, anche se non sono i loro.
Scrive solo romanzi?
Sì, non sono capace di scrivere racconti. Io parlo tanto, mi piacciono le cose lunghe ma di parole giuste. Non è un concetto che sembra coerente, ma è proprio così. Altrimenti preferisco meno parole di tante parole, perché meno dici più in verità riesci a dire.
Quanto tempo ci mette a scrivere un libro?
Ogni libro ha un tempo diverso. Il primo: nove mesi; il secondo: un anno e due mesi. Scrivo da otto anni. Per il terzo, avevo dentro molta rabbia, perché avevo visto picchiare un ragazzo di colore nella mia via, ero intervenuto ma non avevo potuto portare avanti la cosa per esplicita richiesta del ragazzo che non aveva documenti e non voleva peggiorare la sua situazione. Sono dovuto stare zitto, e ho scritto Bianco. Per il quarto libro: tre anni.
Come mai hai scelto “lo scrittore”?
Non lo so, avevo delle cose da dire. Sapete, se non andate bene a scuola non vuol dire che non farete cose belle nella vita, o che non farete gli insegnanti. Quando da più piccolo mi chiedevano cosa volessi fare della mia vita io rispondevo “il trapezista”, oppure “il biologo”. Non avrei mai pensato di fare lo scrittore. La sera, a Rimini (una specie di Paese dei balocchi) andavo in discoteca con i miei amici e, mentre molti di loro ballavano al centro posta e stavano con le ragazze, io stavo sui divanetti a tenere tutti i giubbotti. Dai divanetti, io guardavo e così ho preso un sacco di spunti per fare lo scrittore.
Sei mai stato bocciato?
No, e se vi devo dire la verità ho anche copiato durante i compiti in classe. Poi, a un certo punto, ho iniziato ad andare bene a scuola, perché una Prof. ha capito com’ero fatto. Ero in terza superiore.
Perché sei di Rimini ma vivi a Milano?
Perché a Rimini non c’era lavoro, allora ho mandato un po’ di CV in giro e sono andato a Milano.
Se volete vi leggo in anteprima una pagina del mio nuovo libro! (Marco)
[…]
Per non annoiare, un libro deve iniziare catturando l’attenzione. Non a tutti gli scrittori interessa; io lo faccio, perché da piccolo non amavo leggere e mi annoiavo facilmente. Come me c’è un altro scrittore che ha paura di annoiare, Nicolò Ammaniti.
A Rimini non ci sono i portinai, li ho scoperti a Milano. Hanno le chiavi di tutti gli appartamenti. Io sono molto curioso e, allora, mi è venuta l’idea che se avessi le chiavi delle persone che vivono nel mio palazzo, entrerei in tutti gli appartamenti. Penserei: io ci entro, in casa loro. Aspetto che non ci sia nessuno, sto attento. Non entro per rubare, sarebbe una cosa terribile, solo per curiosare. E se la famiglia che abita nella casa in cui entro fosse legata a me da un segreto e io dovessi entrare per proteggerlo? Nel segreto si proteggono le persone a cui vogliamo bene.
Qual è la cosa più difficile da fare quando si scrive?
Avere voglia di scrivere; io non ce l’ho. Andrei più volentieri, nell’ordine: a giocare a calcio, a giocare a poker, con le ragazze in giro. La scrittura va al quinto posto, ma mi ha salvato, mi far star bene. La cosa più difficile è mettersi lì (sì, anche fare la brutta e poi la bella!).
È importante non perdere mai la prima cosa che avete scelto: se ho la palla devo fare goal, la palla deve rimanere quella lì. Facciamo un esempio. Tema in classe: “cosa ha detto lo scrittore”. Svolgimento: lo scrittore mi ha annoiato tantissimo. Mi ha annoiato perché credevo che mi avrebbe annoiato; poi però ha raccontato del calcio e mi è venuto in mente di quando mio papà mi ha portato a vedere la partita che mi ha divertito… Potrei metterci dentro questa storia qui e solo alla fine potrei tornare a parlare dello scrittore. Un tema che all’inizio non mi interessava è diventato interessante: la scrittura può adattarsi a me. Non bisogna farsi fregare dalla scrittura, per questo è meglio scrivere cose semplici (e lo diceva Hemingway).
Hai mai pensato di scrivere un romanzo su una cosa divertente?
Ho provato ma non mi è venuto molto bene. Ho anche tentato con una storia d’amore, ma quelle bisogna viverle.
Che genere scrivi?
I miei libri non hanno genere. Sono “bianchi”!
Scrivi a mano o al computer?
Scrivo al computer e non a penna, così quando cancello non vedo gli errori che ho fatto. Mi pulisco la coscienza! E poi è pratico.
Quando scrivi?
Il primo l’ho scritto quando ne avevo voglia, mentre facevo l’università. Durante il secondo, invece, lavoravo otto ore al giorno, per cui l’ho scritto di notte.
Ecco perché è buio! (Ragazzi)
Per il terzo, scrivevo la mattina presto, dalle sei alle nove… ecco, avete ragione, infatti si chiama “Bianco”! Ero talmente rintronato dal sonno che dovevo per forza scrivere cose semplici, ed è andata molto bene.
L’inizio di un altro libro l’ho lasciato nel cassetto, era troppo intimo. Ho pensato che se lo avessi pubblicato, qualcuno ci sarebbe rimasto male.
Regole per scrivere bene?
Tre regole per fare un buon lavoro: non innervosirvi; scrivere cose che vi piacciono o cose che si possono collegare a cose che vi piacciono; scrivere di persone che non conoscete, così potete inventarli.
Non metti mai persone vere nei tuoi libri?
Io li metto dentro per prenderli in giro, spesso non se ne accorgono.
Piani per un nuovo libro?
No, sono stanco morto. Sono molto felice quando ho finito di scrivere, è come aver finito i compiti al pomeriggio ed essere liberi, dalle cinque alle otto di sera, di divertirsi.
Ne dovrei scrivere tanti, di libri, per vivere solo del mestiere di scrittore; allora, preferisco fare un altro lavoro, e scrivere meno. Faccio il giornalista, per Il Corriere della sera e per Vanity Fair (guardate nella sezione della della cultura, prima del calcio).
Prendi mai spunto da altri?
Ci sono cose che mi hanno fulminato e le prendo, però lo dico sempre. Ad esempio, mi piaceva moltissimo il meccanismo di Io non ho paura (Ammaniti): il ragazzino che scopre un segreto gravissimo che riguarda i genitori. L’ho usato anch’io per Senza coda.
Il tuo libro preferito?
Trilogia della città di K. L’autrice era scappata dall’Ungheria, e parlava poco il francese. Ha scritto un libro con le cinquanta parole francesi che conosceva, invece che con la sua lingua madre, per risparmiare parole. Poi, Ti prendo e ti porto via (Ammaniti) e, al terzo posto, Il filo del rasoio, opera di uno scrittore omosessuale, impertinente, che vedeva moltissime cose, non diceva niente, e poi le metteva nei suoi libri.
Scriveresti un libro sulla guerra?
Sì, soprattutto su quello che lascia, come gli orfani.
Parli inglese?
Quasi per niente.
Francese?
Sì, ma con il francese ci parli col muro…
Come ti chiami, quanti anni hai, ce l’hai facebook?
Mi chiamo Marco Missiroli, ho trent’anni, la pagina facebook me l’hanno creata gli altri (la controlla l’amico e scrittore Giorgio Fontana).
Hai mai visto partite della Juve?
Sì.
Chi ti ha raccontato la storia della vittoria dell’Uruguay?
Un uomo che pescava al porto di Rimini, in dialetto. L’ha anche scritta Brera, un grande giornalista sportivo.
Hai mai scritto un libro su dove sei nato?
L’ultimo, Il senso dell’elefante. Prima, avevo paura di affrontare la mia città.
Sulla tua vita?
Bisogna essere più vecchi. Al tema di maturità era uscita questa traccia: esprimi il dolore della tua vita. Ho preso 15 su 15! così, sono uscito con 96 (per il resto delle prove mi sono pure aiutato copiando!). Liceo scientifico.
Un consiglio di metodo?
Io ho lavorato in edicola dai quattordici ai venticinque anni, l’estate. Mi alzavo alle cinque e mezza, così ho imparato il metodo. Quando inizio a scrivere, è così: tutti i giorni una pagina. Il segreto è interrompersi sempre quando hai l’idea per andare avanti, così il giorno dopo continui. Sempre e solo una pagina, anche se ho tante cose da dire, anche se ho la febbre. A volte ci metto anche undici ore, altre basta mezzora. Se poi voglio aggiungere qualcosa, lo appunto su un foglietto e lo scrivo il giorno dopo. Quando, invece, non ho idee metto la fronte sul tavolo, per fare arrivare il sangue alla testa. Di solito finisce che mi addormento e alla fine l’idea arriva.
Sogni cosa scrivere?
Quando dormo, sogno di fare goal, oppure canestro, non di scrivere.